The Cool Couple & Francesco Spampinato

The Cool Couple & Francesco Spampinato

Come Together: The Rise of Cooperative Art and Design.
Una conversazione con Francesco Spampinato.

Come Together: The Rise of Cooperative Art and Design (Princeton Architectural Press, New York, 2015) è una collezione di interviste con quaranta tra i più importanti collettivi degli ultimi vent’anni. Le loro strategie e finalità, seppur differenti, evidenziano una comune tendenza a sviluppare pratiche che si appropriano delle estetiche dei mass media e dei dispositivi del potere, per trasformare i fruitori in una parte attiva delle loro azioni di riappropriazione dello spazio pubblico. A ogni gruppo è dedicato un capitolo e vengono poste le stesse domande, che spaziano dalla natura della collaborazione alle modalità con cui istituire uno scambio attivo con il pubblico.

The Cool Couple: Ho acquistato il tuo libro un paio di anni fa e mi aveva attratto perché, operando in un collettivo, sono sempre stato affascinato dalle dinamiche collettive di produzione culturale in relazione all’autorialità e alla relazione con il pubblico. Ho apprezzato Come Together in primis per la sua struttura, basata su un set di domande riproposte a tutti i collettivi che hai intervistato. Inoltre, il libro solleva alcune questioni centrali nella ricerca che stiamo svolgendo all’interno di POIUYT: il ruolo del collettivo in questo periodo storico, le modalità di trasmissione dell’arte al di fuori del suo habitat, l’elaborazione di pratiche con cui stimolare una riflessione sui processi di formazione dell’immaginario collettivo. Queste sono le ragioni per cui ti ho contattato e ti ringrazio molto di aver accettato di condividere con noi alcune riflessioni sulla tua ricerca.

Partiamo dall’origine del libro: le tue fonti, la durata della ricerca, i criteri di scrematura alla base della geografia di Come Together, che comprende anche aree a cui tendenzialmente non siamo portati a guardare.

Francesco Spampinato: Come Together è nato da una ricerca molto più vasta, quasi enciclopedica, che si estende a partire dalle avanguardie storiche dell’inizio del XX secolo. Nel libro ho cercato di focalizzarmi invece su un arco temporale più recente, che va dalla fine degli anni ’90 ad oggi. Ho impostato questa soglia perché volevo comprendere cosa contraddistingue questi gruppi e cosa li rende peculiari della nostra epoca: non solo le loro modalità di lavoro, ma le ragioni stesse della loro esistenza.

La maggior parte della loro produzione, infatti, corrisponde al periodo di massificazione di Internet e delle tecnologie digitali. Inoltre, volevo comprendere il modo in cui queste pratiche sono sintomatiche di nuovi stili di vita in cui la tecnologia svolge un ruolo fondamentale nello spingerci a operare in collettivo.
Internet ci ha illustrato nuove pratiche di collaborazione anche se il tanto decantato aspetto utopico e democratico di Internet degli inizi è stato poi completamente ridimensionato negli anni successivi.

Ho selezionato i gruppi in base alla loro provenienza. La maggioranza è inevitabilmente statunitense o europea, ma ho cercato di evitare una ricerca esclusivamente puntata sull’Occidente.
Per questo mi sono guardato in giro e ho incluso anche diversi duo e gruppi Sudamericani, Australiani e Asiatici. Di particolare interesse è come nei paesi in cui la situazione economica rende difficile la costituzione di un sistema dell’arte, i collettivi e gli spazi indipendenti giocano spesso una funzione fondamentale.

Ruangrupa, Singapore Fiction, Installazione, 10th Singapore Biennale, National
Museum, Singapore 2011

Ad esempio, Ruangrupa, è un collettivo di Jakarta e ha un ruolo cruciale in Indonesia come propulsore di attività culturali trasversali che coinvolgono fasce di pubblico molto differenti attraverso eventi come un festival di cinema sperimentale, mostre, happening e mercati per giovani artigiani e designer.
Così facendo, più che contrapporsi al quasi inesistente contesto artistico, Ruangrupa ha inventato un proprio sistema per la produzione e la fruizione dell’arte e di pratiche affini. Da collettivi come questo ho imparato moltissimo, perché, se di altri gruppi, in quanto europeo, comprendevo le logiche e le strategie, le motivazioni e il background politico, nel caso di Ruangrupa o di collettivi sudamericani, si è trattato di un confronto con un panorama completamente inedito.

Paper Rad, Mirror Phazer, Video still, 2006
Courtesy dell’artista

TCC: Il discorso sulla geografia dell’arte, sul rapporto con le istituzioni e sulle dinamiche della società in rete, mi porta a chiederti se e quanto l’agenda politica sia rilevante per i collettivi che hai catalogato.

FS: Non tutti i gruppi sono dichiaratamente politici: penso ad esempio ai Paper Rad, che hanno fatto del disimpegno una delle loro caratteristiche portanti, rifugiandosi nelle memorie pre-digitali della loro infanzia degli anni ’80 e ’90, conferendo alle icone dei cartoni animati e dei videogame un aspetto “uncanny” (perturbante), familiare ma al tempo stesso mostruoso. Anche quando l’impegno politico è più evidente, si svincola da un’ideologia nota per costruire una simulazione distopica.
Il collettivo israeliano Public Movement, per esempio, organizza delle performance pubbliche che riprendono e teatralizzano le coreografie dell’apparato governativo dello stato, inscrivendo i simboli del potere in parate ed eventi celebrativi disfunzionali, a base di elementi astratti. Non è presente una finalità chiara, se non quella di illustrare l’idea stessa di celebrazione e mostrare come un governo produce il consenso nei cittadini attraverso un evento che è parte della loro quotidianità.

Public Movement, Performing Politics for Germany, Performance pubblica, Berlino 2009
Fotografia: David Schmidt

TCC: Credo che questo tipo di azioni sia estremamente utile, perché articolano un discorso sull’efficacia e la pervasività delle strutture del potere in un momento storico in cui il potere si è smaterializzato a tal punto da non avere più un volto. In una situazione simile, già la stimolazione di un ragionamento critico riguardo agli apparati del potere sia un atto politico. Penso che Come Together possa leggersi anche come una collezione di strategie politiche basate sulla collettività per restituire alle persone una qualche forma di potere, a volte banalmente il potere di capire qualcosa di un mondo nel quale è sempre più difficile distinguere la realtà dalla finzione.

FS: Esatto. Molta della produzione artistica del XX secolo è andata nella stessa direzione: pensa alla trasformazione dalle Avanguardie Storiche a quelle forme di “avanguardia di massa” che si manifestano a partire dagli anni ’60 come la musica rock, per esempio. Nella produzione dei collettivi che ho intervistato nel libro la performance riveste un ruolo centrale perché estende le dinamiche del gruppo alle persone che sono coinvolte nelle sue attività, a volte casualmente, se consideriamo che molte di queste azioni avvengono direttamente nello spazio pubblico. Una delle domande che ho posto loro, infatti, è: “Does your engagement with one another translate into an engagement with the public? How so?”

Metahaven, Transparent Camouflage, sciarpa per WikiLeaks, 2011
Fotografia: Meinke Klein

TCC: Oltre alla performance, ad emergere nella pratica dei collettivi è anche l’appropriazione di strategie, dispositivi ed estetiche tipiche dei sistemi che mirano a decostruire, come nel caso di Metahaven.

FS: Questo era uno dei miei interessi sin dall’inizio della ricerca e una caratteristica comune a tutti, anche a quei gruppi più datati come Center for Tactical Magic o The Yes Men: la simulazione dei linguaggi e meccanismi propri dell’economia e dell’industria dell’intrattenimento al fine di renderli disfunzionali.

Oltre a Metahaven, mi viene in mente DIS, che ha mutuato il suo linguaggio dalla stock photography, dai social media e varie forme di intrattenimento digitali. La simulazione, in questo caso, si è tradotta addirittura nella costruzione di un vero e proprio sito di stock photography, DISimages, in cui le immagini sono da loro prodotte e commissionate. Il sito funziona come ogni altro database di questo tipo, consentendo l’acquisto delle immagini e dei relativi diritti di utilizzo a fini commerciali anche se non è ben chiaro quale sia l’oggetto della promozione.

DIS, New in Stock, Fotografia, 2010
Courtesy dell’artista

TCC: Qual è il rapporto tra queste pratiche e la tassonomia del mondo dell’arte? Dal momento che la loro efficacia si basa sulla verosimiglianza del dispositivo e dell’esperienza, questi gruppi si pongono ai suoi confini.

FS: Esatto, e lo fanno soprattutto attraverso una produzione immateriale, rifiutando le etichette e contaminando varie forme di produzione culturale, per esempio abbattendo i confini tra arte e comunicazione visiva come fa Metahaven. La produzione dell’agenzia si divide tra commissioni (che possono andare dalla copertina per un libro di Sternberg Press all’identità visiva per un evento espositivo) e progetti indipendenti e destinati a un altro tipo di utenza, ma confezionati con lo stesso stile. Sono progetti artistici in cui realizzano un prodotto commerciale disfunzionale. Quando hanno creato l’identità visiva di Wikileaks, con una linea di merchandising che comprende una serie di foulard di seta (che traducono perfettamente i concetti di trasparenza e opacità), non si è trattato di veri prodotti in fondo, ma di oggetti che proponevano un’idea, un suggerimento a vivere in un modo diverso.

TCC: Uno dei termini che utilizzi per descrivere le pratiche di alcuni dei collettivi presenti nel libro è “artivism”, puoi spiegarci perché questa scelta?

FS: Artivism combina l’idea di arte e attivismo. Mi sembrava un termine forte che riassumesse bene i concetti fondanti del libro. Non si può certo applicare a tutti i gruppi, ma alcuni si riconoscono ben volentieri in questa definizione.

TCC: Parlare di attivismo tramite gli strumenti dell’arte solleva la questione del rapporto col pubblico. Molti di questi collettivi lavorano per trasformare i fruitori in una parte attiva del processo, in veri e propri produttori culturali.

FS: Alla fine anche questo è il risultato della cultura digitale e dell’impiego massificato delle sue tecnologie, le cosiddette prosumer technologies, che trasformano il consumatore in produttore e distributore di contenuti. I collettivi che ho selezionato per Come Together trattano il loro pubblico allo stesso modo, non lo guardano dall’alto verso il basso, con supponenza, come avveniva spesso nel corso del XX secolo, ma istituiscono un rapporto orizzontale con i fruitori delle loro azioni.

TCC: Rileggevo l’introduzione al tuo libro, che raccoglie gruppi che impiegano un ampio ventaglio di linguaggi per generare immaginari forti, spesso distopici. Mi sembra che la loro attività e la loro esistenza si possano intendere come dei sintomi di un deficit presente nel tradizionale sistema espositivo. Introducendo Come Together, citi Umberto Eco e Opera Aperta, sostenendo che l’esperienza di un’opera è una vera e propria performance. Quello che vedo in questi collettivi è lo sviluppo di strategie per far fronte alle carenze di un sistema che fatica ad adattarsi ai cambiamenti che negli ultimi vent’anni hanno trasformato tutte le modalità di fruizione culturale. Forse l’operazione ai limiti del sistema dell’arte è uno dei pochi modi genuini con cui interrogarsi a fondo sul senso del “mostrare” un lavoro.

FS: Verissimo. Il modello tradizionale dell’arte è ormai obsoleto dal mio punto di vista. Se consideriamo l’assurdità di alcune dinamiche di mercato e osserviamo con quali criteri viene dettato il valore di un’opera e con quale rapidità questo stesso valore aumenta o svanisce del tutto, possiamo dire che buona parte di questo mondo sottostà a delle dinamiche speculative. Ma l’arte, di per sé, nasce come fenomeno intellettuale e non è etichettabile o riducibile a un sistema di regole per la sua commercializzazione o fruizione. L’arte si trova dove meno puoi pensare di trovarla. E, a volte, può stare stretta. Molti di questi collettivi, già solo per il fatto di operare in gruppo, propongono delle modalità alternative di produzione e distribuzione dell’arte.

Etcétera…, Urban Errorist Cartography: Palestine and Estado de Israel Streets, Street action, Buenos Aires 2009. Fotografia: Subcoop. Courtesy dell’artista

TCC: Un altro tema che emerge dal libro è quello dello spazio pubblico. È un argomento che periodicamente torna alla ribalta con prepotenza, nel momento in cui ci viene sottratto da una serie di dinamiche, che spaziano dagli attentati terroristici ai processi di gentrificazione. Al suo posto, subentrano spazi privati che simulano il pubblico, dall’architettura di un centro commerciale ai social media. Come si inseriscono le pratiche di questi gruppi in un contesto simile? C’è ancora una possibilità per lo spazio pubblico?

FS: Il discorso dello spazio pubblico è cruciale: quasi tutti i movimenti sociali e di protesta sono nati in questa dimensione e ne hanno fatto non solo il luogo in cui intervenire, ma anche il contenuto della loro attività: liberano lo spazio e lo restituiscono a coloro i quali è stato negato. Esistono poi fenomeni come il Carnevale, un momento di liberazione e sovversione dell’ordine costituito, in cui una figura anonima può salire sul podio e prendersi gioco del sistema.

L’occupazione dello spazio pubblico ha un’importanza fondamentale per ricordare quanto la realtà in cui viviamo non ci appartiene e che nelle nostre strade non possiamo fare ciò che vogliamo. Come ha mostrato Occupy! la cui denominazione da sola ben descrive la ragione stessa della sua esistenza: il gesto rivoluzionario dell’occupazione. Molti dei gruppi presentati in Come Together hanno cercato di fare la stessa cosa. Etcétera…, di Buenos Aires, spesso realizza delle carnevalate pubbliche in cui propone lo slogan “errorismo” per capire il contesto del presente, in cui lo spazio pubblico non solo è regolato da un disegno più grande, ma anche da dinamiche incontrollabili come quelle del terrorismo. L’idea di “errorismo” invita a fermarsi per capire l’errore alla base del modo in cui viviamo e dei criteri che regolano lo spazio pubblico, sia quello materiale che virtuale.

Francesco Spampinato è uno scrittore e storico dell’arte contemporanea e della cultura visuale. Dopo due lauree presso l’Università di Bologna ha conseguito un Master in Modern Art presso la Columbia University ed è attualmente dottorando in Arts et Média presso Sorbonne Nouvelle a Parigi. Dal 2011 al 2015 è stato adjunct professor presso la Rhode Island School of Design (RISD) di Providence, dove ha insegnato corsi di storia e teoria dell’arte contemporanea e di storia della performance art in relazione ai mass media. Ha insegnato anche presso la NABA di Milano e la Parsons School of Design di New York. Suoi articoli sono apparsi su riviste accademiche come NECSUS, PAJ, Senses of Cinema e Stedelijk Studies e a larga diffusione come Apartamento, DAMn°, DIS, Flash Art, Kaleidoscope, Mould, L’Uomo Vogue e Waxpoetics. Spampinato è autore dei libri Come Together: The Rise of Cooperative Art and Design, Princeton Architectural Press, New York (2015), Can You Hear Me? Music Labels by Visual Artists, Onomatopee, Eindhoven (2015), e Art Record Covers, TASCHEN, Colonia (2017).

Francesco Spampinato, Come Together. The Rise of Cooperative Art and Design, Princeton Architectural Press, 2014. 20,3×25,4 cm, paperback, 256 pagine, 400 tavole a colori, è disponibile su Amazon.