Arte e politica: tre domande a Victor Burgin
di Francesca Lazzarini
POIUYT è ai suoi primi passi. La piattaforma ha iniziato le attività di investigazione sul ruolo delle immagini nella società contemporanea e sul loro valore politico nel dar forma all’immaginario collettivo. Siamo contenti di iniziare la nostra avventura rivolgendo alcune domande a Victor Burgin, uno dei più noti nomi dell’arte concettuale britannica che, con il suo lavoro di artista, insegnante e teorico, ha dato un significativo contributo alla riflessione sulla fotografia e sulla sua posizione in relazione al capitalismo globale.
Francesca Lazzarini: Nel video 360°, POIUYT meets Francesco Jodice, presentato su questo sito, la conversazione termina con alcune domande aperte riguardo alla possibilità dell’arte di intervenire sul mondo reale. Le persone coinvolte nel video condividono la convinzione, o meglio l’esigenza, di non arrendersi allo status quo e di provare con ogni mezzo – inclusa la pratica artistica – a mettere in discussione la realtà come ci viene offerta. Hai sempre espresso scetticismo sugli ‘artisti politici’ ma allo stesso tempo il tuo lavoro è sempre sembrato improntato su un forte impegno a creare un’alternativa o un’opposizione a “qualsiasi conformismo verso i contenuti e i codici della doxa – ciò che Rancière chiama ‘categorie e descrizioni consensuali’” (Victor Burgin, Parallel Texts, 2011). Abbiamo speranze o dobbiamo arrenderci alla frustrazione dovuta all’impossibilità di avere alcun effetto sul reale? E se pensi non si debba capitolare: poiché quello dell’arte è un mondo di nicchia, specialmente se paragonato al sistema ufficiale della comunicazione, come è possibile espandere lo spazio dedicato alla riflessione critica?
Victor Burgin: Mi chiedi se per l’arte sia possibile “avere un effetto sul mondo reale”. Non comincerei con questa domanda perché questa postula due cose (da una parte ‘l’arte’, dall’altra ‘il mondo reale’) che sono in realtà una sola. Comincerei piuttosto con l’osservare che l’arte è già parte del mondo reale. Le domande che derivano da questa osservazione sono allora come l’arte sia parte del mondo e come potrebbe esserlo in modo differente. Il modo più importante nel quale l’arte visiva è oggi parte del mondo è in relazione all’economia, al mercato e più specificamente al capitalismo finanziario. Se paragoni il campo dell’arte visiva ad altri rami dell’arte – per esempio la letteratura, il teatro, il cinema – appare evidente che le arti visive sono in una relazione particolarmente intima con la forma merce e che cambiamenti radicali in questa forma, negli ultimi decenni, hanno avuto profondi effetti sull’arte.
Ho capito quanto la natura della merce sia cambiata, soprattutto dagli anni Settanta, da uno studio pubblicato di recente in Francia. Nel loro libro Enrichment. A critique of the commodity1, i sociologi francesi Luc Boltanski e Arnaud Esquerre descrivono una trasformazione fondamentale, attraverso l’ultimo quarto del XX secolo, nel modo in cui la ricchezza viene creata nelle nazioni occidentali: un cambiamento segnato, da una parte, dalla deindustrializzazione e, dall’altra, dallo sfruttamento di risorse che, sebbene non del tutto nuove, hanno assunto un’importanza economica senza precedenti.
I due sociologi mettono assieme domini prima considerati separati – in particolare l’arte, specialmente le arti visive, l’industria del lusso, il mercato di oggetti d’epoca, la creazione di fondazioni e musei, le industrie del patrimonio nazionale e del turismo. Ciò che tutti hanno in comune è che generano profitto attraverso lo sfruttamento del passato. Boltanski ed Esquerre descrivono come il tipo di capitalismo industriale che si è affermato in Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale abbia raggiunto un tetto a metà degli anni Settanta. Un eccesso di capacità di produzione e un incremento dei costi dovuto al successo dei sindacati nell’assicurare salari più alti e condizioni di lavoro migliori hanno ridotto i profitti degli azionisti. Il capitalismo ha trovato un modo per uscire da questa impasse esportando la produzione in paesi con una forza lavoro economica e docile, aumentando in tal modo la disoccupazione e diminuendo i redditi dei lavoratori in Occidente.
Come la produzione industriale è declinata in Occidente, si è avuto un aumento del valore di nuovi servizi finanziari non regolamentati e di una crescita senza precedenti nella produzione di beni di lusso. Laddove nel regime industriale prodotti come i motori delle macchine o le lavatrici erano destinati a tutte le classi economiche eccetto quelle estremamente povere, i nuovi beni di lusso sono destinati esclusivamente a quelle più ricche. Nell’economia industriale le classi media e operaia erano necessarie a sostenere il mercato, nell’economia dell’arricchimento queste classi non sono più necessarie. Boltanski ed Esquerre utilizzano il termine ‘arricchimento’ per riferirsi sia al sistema nel quale le merci sono prodotte esclusivamente per i ricchi, sia alle operazioni attraverso le quali questi beni vengono ‘arricchiti’ agli occhi dei loro benestanti consumatori. Distinguono tra diverse classi di merci, in base al tipo di discorso ad essi associato e alla loro relazione col tempo. Nel caso della produzione di massa di merci ‘standard’ (lavatrici, motori di auto) il discorso dominante è quello dell’innovazione, dell’affidabilità e della durata, anche se rispetto al tempo è tacitamente accettato che questi prodotti siano destinati all’obsolescenza e alla spazzatura. Per illustrare rapidamente come Boltanski ed Esquerre concepiscono il discorso e il tempo della merce arricchita nel particolare contesto dell’arte contemporanea devo ricorrere ad un aneddoto. La maggior parte delle informazioni che ricevo riguardo a ciò che accade nel mondo dell’arte contemporanea oggi arriva sotto forma di email indesiderate. Una di queste, poco tempo fa, parlava della nascita di un nuovo premio di scultura: il Barbara Hepworth Prize. Dal lancio ho appreso che “la scultura è la forma d’arte del momento” e che il premio è presentato dal Presidente della casa di moda di lusso britannica Burberry Group Inc. Mi dicono che “la scultura è la forma d’arte del momento” ma la parola “scultura” inevitabilmente porta con sé la storia e la reputazione collegate a nomi come Prassitele, Michelangelo, Rodin e così via. Di conseguenza, il nome Hepworth entra a far parte di questa serie e, come ulteriore conseguenza, chi riceve il premio tocca, forse addirittura eredita, le vestigia di questa storia. Questo esemplifica ciò che Boltanski ed Esquerre chiamano “l’apparato seriale”, la narrazione legittimante all’interno della quale il valore dell’oggetto – qui la scultura – verrà arricchito. Nell’economia dell’arricchimento il valore è aggiunto all’oggetto principalmente attraverso l’operare di simili narrazioni, esplicite o implicite. Se la scultura, a detta di questa storia, può essere contemporaneamente molto antica ma allo stesso tempo “l’arte del momento” è solo perché essa è al di fuori del tempo e perciò impermeabile ai flussi di valutazione che potrebbero colpire altri potenziali beni di investimento2. In questo caso particolare la mise-en-scène senza tempo è adeguatamente completata dalla figura allegorica del Capitale, personificata dal Presidente di un’azienda inclusa tra le 100 dell’indice FTSE. Benché sia simbolicamente importante chi consegna il premio, è completamente irrilevante chi lo riceve, l’unica cosa essenziale è che il dono sia accettato. Una volta, a Jean-Luc Godard è stato chiesto, in un’intervista televisiva, se sarebbe andato in persona a ritirare un premio da poco conferitogli. Lui ha risposto:
Se qualcuno ti dà una cosa chiamata “premio” non puoi negare il fatto che siano loro ad averlo dato, sono loro gli autori del premio… quindi dico “ridate questo premio agli autori” …perciò non andrò a ritirarlo.
L’attenzione della critica e dei media è ovviamente focalizzata su chi riceve questi premi e raramente sull’apparato che li genera. Ogni critica politica che si rispetti dovrebbe in qualche modo coinvolgere l’apparato in sé. L’idea di ‘apparato’ che qui uso è presa principalmente da Bertolt Brecht e Michel Foucault. Ciò che Brecht intende per ‘apparato’ è ogni aspetto relativo ai mezzi di produzione culturale: dalle tecnologie, passando per la pubblicità e la promozione, fino alle élite finanziarie e politiche che finanziano e controllano le varie istituzioni culturali. Brecht parla di ciò che lui descrive come il ‘pensiero confuso’ sia di artisti che critici riguardo a questo apparato. Scrive:
…immaginare di aver il controllo di un apparato che in realtà li controlla porta all’abitudine generale di giudicare le opere d’arte in base alla loro idoneità rispetto all’apparato senza mai giudicare l’apparato in base alla sua idoneità rispetto all’opera. Le persone dicono che questo o quello è un buon lavoro; e intendono (ma non lo dicono) buono per l’apparato. Ma questo apparato è condizionato dalla società attuale…un’innovazione passerà se è pensata per ringiovanire la società esistente ma non se la cambia…3
La nozione che Brecht ha di apparato è innanzitutto di ispirazione socio-economica. Per un concetto più esaustivo di apparato dovremmo far riferimento al lavoro di Foucault. In alcune domande a lui rivolte nel 1977, dopo la pubblicazione del primo volume della sua Storia della sessualità, a Foucault è stato chiesto di spiegare cosa intendesse con la parola ‘apparato’ (dispositif) parlando di ‘apparato della sessualità’. Lui ha risposto:
…prima di tutto, un insieme profondamente eterogeneo composto da discorsi, istituzioni, forme architettoniche, regolamentazioni, leggi, misure amministrative, dichiarazioni scientifiche, proposizioni filosofiche, morali e filantropiche…il detto quanto il non detto. Questi sono gli elementi dell’apparato. L’apparato stesso è il sistema di relazioni che possono essere stabilite tra questi elementi.4
Foucault prosegue dicendo che l’apparato è articolato tra sistemi di potere e l’’epistemico’ – il terreno mutevole di ciò che è considerato conoscenza legittima in una data società in un dato momento.5
Se dovessimo identificare le componenti dell’apparato artistico nei termini di Foucault potremmo cominciare facendo elenchi in alcune delle categorie che indentifica come costitutive degli apparati. Per esempio, in ‘discorsi’ enumereremmo i vari corpi di scrittura e di discorso che hanno l’arte come oggetto: curatoriale, critico, giornalistico, storico, sociologico, filosofico e così via. In ‘istituzioni’ elencheremmo non solo entità come la Tate Modern, la Royal Academy of Arts e i Dipartimenti d’Arte di scuole e università ma anche strumenti di legittimazione come il sopra citato Hepworth Prize, il Turner Prize, il Deutsche Börse Photography prize e così via. Nella categoria foucaultiana ‘forme architettoniche’ includeremmo i vari tipi di strutture all’interno delle quali le opere d’arte sono presentate: ovviamente musei e gallerie ma anche periodici, riviste e quotidiani, e Internet. È evidente che i discorsi, le istituzioni e le altre cose relative all’arte, convergono tutte verso un singolo oggetto comune che ha dato loro origine, ossia l’arte. Ma questa singolarità putativa è in realtà un’eterogeneità che muta, incapace di presentare un quadro coerente senza una cornice discorsiva. È l’apparato da solo che oggi produce ‘arte’ e gestisce le contraddizioni storiche tra l’idea di arte come veicolo di ‘valori elevati’ e la consapevolezza che l’arte è oggi una parte integrante della società dello spettacolo, della cultura delle celebrità e dell’economia dell’arricchimento.
FL: Il tuo lavoro è sempre stato considerato politico. In diverse occasioni hai fatto notare che ciò non significa che sia un lavoro militante, né che affronti temi urgenti dell’agenda politica ma che il suo valore politico deriva dall’essere legato all’uso delle immagini nella nostra società. In una conversazione con Alexander Streitberger, pubblicata nel tuo libro Parallel Texts (2011) hai affermato che “(…) le pratiche artistiche sono una componente della stessa sfera di rappresentazioni nella quale viene formato l’‘immaginario popolare’”. Pensi che questo immaginario sia il terreno sul quale si combatte oggi la lotta politica?
VB: Ti sto scrivendo a pochi giorni dall’ottantesimo anniversario della morte di Antonio Gramsci, il cui concetto di ‘egemonia culturale’ è alla base di qualsiasi comprensione del ruolo dell’immaginario nella sfera della trasformazione sociale. È stato Gramsci il primo a riconoscere alla lotta culturale e ideologica lo stesso valore della lotta politica ed economica. In effetti, implicitamente, ha dato loro priorità sostenendo che è solo quando la maggioranza delle classi subalterne ad avere una visione del mondo diversa da quella della classe dominante che ci sarà una possibilità di un cambiamento sociale rivoluzionario. Questa è stata una rottura radicale col pensiero marxista precedente – il modello ‘base/sovrastruttura’ – che dava priorità all’economia e all’emergere presumibilmente spontaneo di una coscienza di classe dalle condizioni economiche. Gramsci è stato probabilmente il primo pensatore politico a riconoscere che la società occidentale era diventata una società di cultura di massa. Oggi, gli apparati egemonici – industrie mediatiche globali come quelle di film, televisione, pubblicità, video game, musica popolare e così via – ostacolano ampiamente la possibilità di immaginare che il mondo possa essere altro da quello che è. Roland Barthes è gramsciano quando osserva che ovunque nella sfera della cultura di massa troviamo “sempre nuovi libri, nuovi programmi, nuovi film, nuovi oggetti, ma sempre gli stessi significati”6. In una prospettiva gramsciana potremmo notare che per la maggior parte della storia occidentale l’arte ha offerto uno spazio alternativo per il pensiero non-consensuale, per la diversità e la complessità intellettuali e formali realmente o potenzialmente anti egemoniche, ma il suo ruolo è declinato drammaticamente nel corso dei decenni. La tendenza prevalente nell’arte oggi è di affrontare lo stesso tipo di interessi, forme di attenzione e capacità di lettura che i mass media generalmente presumono nel loro pubblico. Alcuni anni fa, viaggiando sulla metro di Londra, ho visto un titolo su un tabloid popolare di destra, il Daily Mail, che strombazzava che oggi sono interessate all’arte contemporanea più persone di quante lo siano mai state prima. È cambiato il pubblico dei lettori di quotidiani o è cambiata l’arte? L’espressione ‘fine art’ è stata introdotta da un filosofo del XVIII secolo che si scervellava sui differenti scopi che distinguono una sfera di attività culturale dall’altra7.
Se l’arte dovesse essere giudicata per il suo valore di intrattenimento o di novità, allora non avremmo più bisogno della categoria poiché siamo già ampiamente intrattenuti e informati altrove. Di recente, sono stato invitato ad un evento dedicato a uno scrittore il cui nome non mi era familiare. Ho cercato su Google il suo nome e mi sono ritrovato a leggere il testo che l’editore aveva scritto per un libro prodotto dallo scrittore nel 2009:
…feroce, brillante e assolutamente originale…Un libro ambizioso e innovativo… che abbandona la falsa distinzione tra cultura ‘alta’ e ‘bassa’ a favore di un mondo senza confini nel quale la musica pop e la scultura, la letteratura e il cinema, la TV e la pittura sono tutte…parte della stessa visione. 8
Il rifiuto di una ‘falsa distinzione’ tra pratiche culturali in favore di un ‘mondo senza confini’ sottoposto a una ‘stessa visione’ (la stessa visione che, presumibilmente, stabilisce quali distinzioni siano vere e quali false) richiede inevitabilmente dei confini, presso i quali le forme culturali che non possono essere assimilate ad un unico sguardo unificante verranno espulse, o sarà loro negato l’accesso. La crescita dell’economia dell’arricchimento è stata accompagnata dall’aumento del populismo politico e culturale. Gran parte del cambiamento nelle istituzioni d’arte mainstream dagli anni Settanta sembra essersi basato sull’idea che ‘la gente comune’ dovrebbe essere in grado di capire l’arte anche se non ha mai aspirato a possederla. Forse dovremmo considerare l’idea opposta e cioè che ‘la gente comune’ potrebbe aspirare a possedere l’arte anche se non la capisce. Qui, la parola ‘possedere’ deve essere intesa non nel senso letterale, di economico e possessivo, ma nel più ampio senso di ‘far proprio’. Quale figlio della classe operaia, con nulla della ‘cultura alta’ a casa, ho avuto accesso a biblioteche pubbliche ben fornite e gratuite. La città in cui vivevo aveva un museo d’arte, l’ingresso era libero e ci andavo spesso. Ho fatto miei i libri e i quadri. Non posso dire che ‘avevo capito’ tutte le cose che ho visto nella galleria d’arte della città, o letto nei libri presi a prestito in biblioteca, ma mondi al di là della mia vita quotidiana – non ultimi, mondi della mia immaginazione – sono divenuti accessibili. Nessuno mi ha patrocinato, nessuno si è speso per procurarmi libri o dipinti che pensava avrei ‘capito’ – dopo tutto, cosa significa ‘capire’ se non una perfetta coincidenza tra il messaggio emesso e il messaggio ricevuto? Questo tipo di comprensione è per i segnali stradali, non per l’arte. Sono entrato negli anni Settanta con un lavoro che ovviamente era estremamente ‘politico’ nel contenuto. Alla fine del decennio mi sono convinto – sia per l’ovvio fallimento politico della Tendenzkunst9 ma soprattutto per gli argomenti del movimento femminista – della necessità di “distinguere tra la rappresentazione della politica e la politica della rappresentazione”10. Il decennio successivo, comunque, è coinciso con gli anni in cui simili discussioni sulla specificità della politica nell’arte – emersa dal dissenso politico dei tardi anni Sessanta – sono state ampiamente rimpiazzate da una mentalità pubblicitaria e di marketing promulgata da una combinazione di molto denaro e l’emergere di una classe di ‘curatori creativi’ di tendenza. Ogni cosa – senza eccezioni per la miseria del mondo – da quel momento in poi ha fiammeggiato in un falò fumoso. La tendenza dominante dell’arte nell’era del capitalismo finanziario sfrenato e dell’egemonia dell’ideologia neo-liberista è stata quella di unirsi alla corrente dominante della cultura dello spettacolo e del culto dell’individualismo mentre una vera arte politica potrebbe offrire modalità alternative di stare al mondo. Durante gli anni Settanta e Ottanta, quando insegnavo al Polytechnic of Central London, suggerivo sempre ai miei studenti un esercizio intellettuale quotidiano: mentre aspettate un treno sulla banchina della metropolitana, circondati da poster pubblicitari, guardateli bene e domandatevi: “Chi, questa pubblicità, pensa che io sia?”. Potremmo fare un simile esercizio in relazione a lavori artistici: “Chi, quest’opera, pensa che io sia?”. E per estensione: “Chi, l’apparato dell’arte, pensa io sia?”. E infine: “Quale forma di società, l’istituzione dell’arte come noi oggi la conosciamo, presuppone?”.
FL: Nella tua pratica artistica, hai sempre aggiornato il tuo linguaggio: dall’uso della fotografia e dei testi ai poster, dal panorama alla giustapposizione di immagini fisse e in movimento, fino alla realtà virtuale creata con programmi 3D nei tuoi lavori più recenti. La rapida evoluzione tecnologica delle ultime decadi ha radicalmente mutato le modalità di produzione, distribuzione e uso delle immagini su scala globale, mettendo in discussione la loro stessa natura e aprendo nuove prospettive di ricerca in ambito artistico ed epistemologico. In che modo, questi cambiamenti, hanno influenzato la tua pratica e i tuoi interessi?
VB: Ho sempre pensato che prendere in considerazione l’immaginario culturale di massa implichi che io sappia non solo come funziona da un punto di vista semiotico, che è stato il proposito dei miei scritti teorici e dell’insegnamento, ma anche come funziona nelle sue modalità materiali di produzione. Parte del mio “prendere in considerazione” l’immaginario popolare ha implicato un impegno con le forme nelle quali è prodotto: le forme che chiamo ‘demotiche’. Nell’antico Egitto, i geroglifici erano una scrittura riservata ai sacerdoti e alla classe aristocratica. La scrittura demotica, una forma corsiva, era il mezzo per gli affari di tutti i giorni tra le non-élite letterate (per esempio la classe dei mercanti).
La mia originale svolta verso la fotografia, e il mio allontanamento da pittura, scultura e loro derivati, è analoga all’adozione della scrittura demotica rispetto ai geroglifici. È questo tipo di coinvolgimento con le forme demotiche, le forme di rappresentazione incontrate nella routine di tutti i giorni, che mi ha portato a tenermi informato sulle tecnologie che citi. Vorrei sottolineare che ‘demotico’, almeno nel mio uso del termine, è una forma e non un contenuto. Dire ‘demotico’ non equivale a dire ‘popolare’ (che viene misurato dal numero di spettatori e/o dalle quote di mercato), e ancor meno ‘populista’ (che è un genere di politica e un indirizzo politico). La fotografia è demotica in due modi: primo, e più importante, attraverso la sua predominanza tra i mass media dove, associata alle parole, contribuisce alla formazione del senso comune popolare egemonico; secondo, attraverso il suo uso quasi universale da parte del grande pubblico, per scambiare significati. Il primo aspetto demotico della fotografia ha determinato la mia preoccupazione iniziale verso la foto-testualità della pubblicità. Il secondo alimenta il mio sospetto verso le modalità di produzione fotografica costose, ad alto grado di assistenza – la mia preferenza per pratiche fotografiche lontane da quelle delle industrie del cinema e della moda. In anni più recenti sono passato all’uso di macchine fotografiche virtuali nello spazio del 3D computer modeling. Questo non rappresenta una frattura nel mio interesse verso la fotografia, è in continuità con ciò che per me è fondamentale riguardo alla fotografia – il sistema prospettico di rappresentazione. Come è noto, la prospettiva è stata messa a punto per la prima volta come sistema in Italia intorno al 1420, quando Filippo Brunelleschi ha applicato alla pittura principi di ottica e di geometria. Sebbene basato su fenomeni naturali – la fisica della luce e la psicologia della percezione visiva – il sistema prospettico di rappresentazione non è di per sé naturale: né, come le tradizioni pittoriche dell’Islam e di quelle civiltà come Egitto e Cina dimostrano, è inevitabile. Ciononostante, da allora ha caratterizzato le rappresentazioni egemoniche del mondo. La rappresentazione prospettica passa oggi per quasi-naturale ed è ampiamente ignorata quale sistema. Dopo l’automazione della rappresentazione prospettica attraverso la fotografia, l’animazione dell’immagine con l’avvento del cinema ha portato sia un’evoluzione che un’ulteriore svolta nella naturalizzazione della prospettiva. Oggi, il sistema egemonico della rappresentazione prospettica è entrato nel regno del virtuale. La ‘camera’ è in sostanza virtuale. Lo strumento che ciascuno può comprare in un negozio, forse inciso con le parole Nikon, Canon, Blackmagic o Red, è una forma storica contingente dell’applicazione del principio ottico di propagazione della luce in linee rette, e la proiezione geometrica di punti su queste linee su una superficie piana, per rappresentare un oggetto tridimensionale nei termini di uno spazio bidimensionale. L’eidos della camera è immateriale, risiede in principi di ottica, geometria e matematica indipendenti dalle loro forme fisiche, e oggi anche computazionali. Il vero evento rivoluzionario nella storia recente della produzione delle immagini non è stato l’arrivo di macchine fotografiche digitali quanto piuttosto la connessione a banda larga di queste macchine ad Internet. In questo caso, come in altri, il sostanziale impatto culturale e storico risiede meno nella modalità digitale di produzione che nella modalità virtuale di ricezione. Internet, ovviamente, ha anche aperto lo spazio della produzione alla democratizzazione. Il pubblico può ora parlare, intervenire nei prodotti dell’industria dell’intrattenimento e, in linea di principio, produrre le proprie forme di rappresentazione. Questo è un processo che ha avuto inizio con l’avvento dei videoregistratori domestici ma si è esponenzialmente allargato e trasformato con le pratiche audiovisive online.
Penso al mio lavoro come posizionato rispetto a ciò che chiamo la ‘democratizzazione del demotico’ – questa è la sua situazione, nel senso in cui intendevo questa parola nel mio saggio del 1969 ‘Situational Aesthetics’. Il titolo del mio articolo era mirato a evocare l’idea filosofica di etica situazionale – l’idea che un’azione debba essere decisa, o giudicata, non in base a regole morali trascendentali, quanto piuttosto in base al contesto, alla situazione, alla quale l’azione è una risposta. Analogamente, il mio saggio proponeva che l’arte non dovesse essere fatta, né giudicata, in base a valori estetici presumibilmente eterni, ma che dovesse piuttosto essere concepita come risposta alla sua più ampia situazione storica. Ho sintetizzato questa situazione come una in cui le possibilità delle pratiche artistiche sono state ampiamente confinate al ruolo restrittivo di procurare beni materiali da affiancare agli altri oggetti di consumo del capitalismo industriale, in un mondo con capacità ecologiche limitate per poter sostenere una simile accumulazione esponenziale di merce. Ho scritto:
…l’arte è giustificata come un’attività e non solamente come un mezzo per fornire ulteriori prove di una stimabilità pecuniaria come ha osservato Brecht, siamo abituati a giudicare un’opera dalla sua idoneità rispetto all’apparato. Forse è ora di giudicare l’apparato dalla sua idoneità rispetto all’opera.11
Come puoi vedere, le due proposte fondamentali nel mio articolo della fine degli anni Sessanta sono le stesse idee sulle quali mi sono sentito costretto a tornare nel rispondere alla tue domande, mezzo secolo dopo: la prima è che l’attività artistica dovrebbe essere libera dalla forma della merce; la seconda è che una critica dell’istituzione dell’arte – l’apparato – è la condizione necessaria per una simile emancipazione. La situazione nella quale sono state formulate queste due proposte interrelate è cambiata estremamente a partire dai primi anni Settanta – principalmente, come ho osservato, come conseguenza della crescita dell’economia dell’arricchimento, e per l’avvento delle tecnologie informatiche e di Internet. Hai cominciato invocando l’idea del “mondo reale”. La politica ha inizio, ovviamente, con “il mondo reale”; comincia con la percezione di, e una reazione a, questa realtà. Questa prima risposta è involontariamente e inevitabilmente etica. Poi segue l’articolazione di idee, concetti, azioni che costituiscono la sfera della politica. La forma dell’evoluzione del pensiero politico è strettamente analoga, se non identica, a quella dell’evoluzione del pensiero artistico (o, almeno, a come io concepisco l’arte). Il “pensare” è la cosa più importante, ma c’è stata una carenza di pensiero politico reale negli ultimi decenni. Al posto del pensiero abbiamo solo appropriazione e bricolage, l’imposizione di stili autoriali su ready-made e quindi contenuti politici facilmente riconoscibili. Non voglio dire che non ci sono più lavori criticamente incisivi – penso per esempio ad un lavoro collaborativo in mostra al Whitney Museum di New York, che giustapponeva la curva crescente dei profitti delle aste d’arte con la curva crescente del debito degli studenti di arte – ma queste opere sembrano inevitabilmente compromesse dal loro fallimento come arte. Non sono pronto a rinunciare a tutto ciò che mi ha condotto all’arte per fare un discorso politico che potrebbe essere stato fatto altrettanto bene in un articolo di giornale o su Twitter! Vorrei tuttavia difendere l’opera che ho appena citato come esempio perché non dirige la sua critica all’esterno – dall’arte verso il “mondo reale” – ma inizia con il riconoscimento del fatto che dobbiamo cambiare l’apparato artistico stesso che è intrinsecamente parte di questo mondo. L’unico modo in cui l’arte può contribuire a cambiare la società è cambiando se stessa.
1 Luc Boltanski e Arnaud Esquerre, Enrichissement. Une critique de la marchandise, Parigi, Gallimard, 2017.
2 Laurence Fink, Presidente e AD di BlackRock – la più grande compagnia al mondo di investimenti – ha detto che “i due più grandi serbatoi di ricchezza a livello internazionale sono oggi l’arte contemporanea e gli appartamenti a Manhattan”. https://www.bloomberg.com/news/articles/2015-04-21/new-york-apartments-art-top-gold-as-stores-of-wealth-says-fink (accesso aprile 2017).
3 John Willett (ed.), Brecht on Theatre; the Development of an Aesthetic, Londra, Methuen, 1964.
4 ‘The Confession of the Flesh’, in Colin Gordon (ed.), Michel Foucault: Power/Knowledge, Brighton, Harvester, 1980.
5 L’idea di Foucault di ‘apparato’ è complessa, sottile e versatile, ed è stata oggetto di lunghe analisi da parte di altri scrittori – Gilles Deleuze e Giorgio Agamben, ad esempio, hanno entrambi dedicato studi al concetto.
6 Roland Barthes, The Pleasure of the Text, New York, Hill and Wang, 1975.
7 Charles Batteux, Les beaux arts réduits à un même principe, Parigi, 1746.
8 https://www.harpercollins.co.uk/9780007333776/england-is-mine (accesso febbraio 2017).
9 Marx ed Engels hanno condannato la Tendenzkunst come la “frattaglia infelice della letteratura socialista”.
10 ‘Sex, Text, Politics: An Interview with Victor Burgin’, Block, no. 7, 1982.
11 Victor Burgin, ‘Situational Aesthetics’, Studio International, 178, ottobre 1969. [Ripubblicato in Situational Aesthetics: Selected writings by Victor Burgin, Leuven, Leuven University Press, 2009].